Pen Ar Bed
Tradizioni, Culti e Magie dell'Antica Bretagna
di Ardath Lili
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La Bretagna deve il suo
nome all’immigrazione, nel V°sec a.C., di coloni Celti fuggiti dalla
Britannia in seguito all’invasione dei Sassoni.
Le popolazioni che vi si erano stanziate sin dalla preistoria
resistettero lungamente all’invasione dei Celti, che a loro volta si
opposero strenuamente all’invasione romana. Soltanto nel 57 s.C.,
Cesare ne piegò la resistenza, che tuttavia si mantenne molto forte
per tutto il tempo della dominazione romana.
La Bretagna seguì successivamente la sorte di tutta la Gallia romana
e subì la massiccia invasione dei Franchi nel corso del IVsec, cui
seguì l’abbandono da parte di Roma.
Mai completamente domati, i Bretoni divennero formalmente sudditi
della monarchia merovingia prima e di quella carolingia poi, ma
rimasero di fatto indipendenti.
La Bretagna perse definitivamente la sua autonomia sul finire del sec
XV, in seguito al passaggio definitiva della regione alla corona
francese, sotto Francesco I. |
Inizialmente la monarchia rispettò l’autonomia della Bretagna, ma nel
corso del XVIII, avviò un processo accentratore che provocò il
sorgere di tendenze autonomistiche.
Queste si manifestarono drammaticamente con l’insurrezione degli
chouans , nel 1795 e nel secolo XIX con lo sviluppo di movimenti
culturali regionalisti.
Certamente l’isolamento secolare in cui la Bretagna era rimasta,
causato dalla posizione geografica, dalla natura accidentata e dalla
povertà del suolo, aveva permesso a questa ragione di conservare per
lungo tempo le tradizioni nella lingua e nei costumi religiosi e
civili, ma in questo clima di resistenza al potere istituzionale, i
Bretoni sentirono impellente l’esigenza di tutelare le proprie usanze
e cultura, nell’intento di mantenere salda la coesione sociale.
Pertanto i culti religiosi, i canti, le danze, il vestiario,
divennero elementi preziosissimi per rinforzare il sentimento di
appartenenza alla propria terra, poiché permettevano la
differenziazione con il resto della Francia, rendendo la Bretagna una
regione con una propria storia ed una cultura autonoma da difendere.
La particolarità di questa regione non passò certamente inosservata
agli intellettuali del primo Ottocento che, influenzati dal movimento
culturale romantico e dalle problematiche da esso aperte, si
dimostravano alquanto sensibili a tutte le produzioni popolari.
Essi trovarono nella Bretagna una fonte inesauribile di miti,
leggende, canti, credenze religiose che essi videro come la
sopravvivenza dell’antica cultura celtica.
Si sviluppò, (un po’ come succede oggi argh!) un vero e proprio
fenomeno di celtomania, in cui si assistette alla mitizzazione di
questo popolo del passato: tutto ciò che apparteneva alla tradizione
bretone, veniva riferito all’epoca celtica, anche se ciò non
corrispondeva ad una verità storica.
Persino i monumenti megalitici, appartenenti invece all’età
neolitica, vennero identificati come i templi in cui officiavano i
druidi, i sacerdoti celti.
Intorno al 1839 comparvero le prime raccolte di canti popolari
bretoni, come “Barzaz Breiz” di La Villemarquè, che miravano a
ricostruire, attraverso la poesia popolare, l’epopea bretone.
La trasmissione della letteratura orale
Una canzone o una storia
che nessuno canta o racconta, non esiste più. Affinché rimangano
bisogna che esse entrino a far parte del patrimonio comune e che
soprattutto si trasmettano di generazione in generazione.
Se un tempo questa trasmissione avveniva facilmente, ora le modalità
per assicurare tale trasmissione sono molto incerte. Quali sono le
canzoni e i racconti che si trasmettono con più facilità? Quali sono
poi i momenti propizi per questa trasmissione?
In passato racconti e canzoni erano legati a circostanze precise
(festa della mietitura, filatura delle reti da pesca, matrimoni
ecc..)e la trasmissione era unicamente orale.
Ora non è più il ritmo stagionale del lavoro che spinge la gente a
riunirsi: la meccanizzazione dell’agricoltura che ha provocato
l’esodo dalle campagne e la televisione, che ha rimpiazzato le
“veglie” familiari, hanno fatto sparire queste forme di
socializzazione.
La trasmissione di questa parte del patrimonio culturale, deve dunque
avvenire in altro modo.
Da una trentina di anni, in Bretagna, persone molto attaccate alla
propria regione e coscienti dell’imminente perdita di tale patrimonio,
si sono organizzati nel tentativo di far rivivere e trasmettere
racconti e canzoni del passato.
E’ nato così il “Gruppo culturale Bretone” e con esso una serie di
attività essenziali alla valorizzazione e alla diffusione nei
villaggi della cultura popolare.
A questo scopo sono state create nuove occasioni di incontro, come la
Bogue, le Festou-Noz e gli “Spettacoli dei Cantori”.
La Bogue
Questa festa popolare di
creazione recente, si svolge nel villaggio di Redon (Golfo del
Morbhian). Raduna sia abitanti della campagna che cittadini, persone
di tutte le età e professione.
Il “cantare” è elemento essenziale di questo tipo di festa; si va
allo spettacolo non per guardare ma per cantare tutti insieme le
canzoni della propria terra e ciò crea una grande intimità fra i
partecipanti.
Si può dire della Bogue che essa non vuole “far vedere” ma vuole “far
fare”.
A testimoniare questo sta il fatto che gli organizzatori impediscono
del tutto l’accompagnamento musicale per favorire la comprensione
della parole (dato che spesso la musica copre il testo) e facilitare
così la partecipazione e la memorizzazione. Bisogna sottolineare che
la struttura ripetitiva, tipica di molte canzoni popolari
tradizionali, aiuta ad impararle velocemente.
Spettacoli di
cantori
Per ciò che riguarda i
racconti, la trasmissione è più aleatoria e quindi più difficile.
Inoltre si è creata, tra i racconti di un tempo e quelli presentati
attualmente, una differenza sostanziale.
Nel passato una delle caratteristiche peculiari della letteratura
orale era l’anonimato; essa partiva dal popolo e ritornava al popolo
che era nello stesso tempo creatore e ricettore, cosicché tale
letteratura apparteneva a tutti e a nessuno.
Adesso invece si può stabilire che tale racconto appartiene al tal
cantore poiché ognuno ha il suo modo di raccontare e caratterizza i
racconti con la propria personalità.
I racconti attuali assomigliano più a delle storie divertenti che ai
racconti del passato, lo stile è completamente differente.
Queste narrazioni, una volta ridotti al loro minimo narrativo, sono
assai corti e ciò che fa l’abilità del cantore è proprio la capacità
di ampliare ed arricchire in modo personale il nucleo creativo.
Esistono così diverse versioni di uno stesso racconto alquanto
dissimili fra loro.
Nelle analisi strutturali del racconto (W.Propp) la struttura della
narrazione è formata da nuclei (funzioni cardinali) che sono
consecutivi, cioè seguono la cronologia del racconto ed è impossibile
sopprimerne uno senza che la storia diventi incomprensibile.
Sarà esattamente questa la parte del racconto che verrà trattenuta
dall’ascoltatore e forse trasmessa. Dipenderà poi dal talento di
ciascun cantore l’inserimento tra i nodi narrativi di nuovi elementi
capaci di rendere il racconto più piacevole, intrigante e quindi più
facile da ricordare.
Dal punto di vista contenutistico molti racconti fanno riferimento a
modi di vita o ad avvenimenti attuali opposti a quelli del passato:
rurale/urano, tradizione/progresso, passato/presente.
Ma ci si chiede; questo tipo di racconti sopravvivrà fra quindici,
venti anni? Riuscirà a diventare parte del patrimonio culturale
collettivo?
Il dibattito è molto acceso all’interno dei Gruppi culturali Bretoni.
Da una parte si sostiene che i racconti più vicini per contenuto a
quelli del passato, avranno più possibilità di essere trasmessi alle
generazioni successive; dall’altra invece, si prende coscienza della
impossibilità di conservare le immagini del passato.
Per altri l’unico modo di trasmettere questa letteratura sia di fare
del nuovo restando nello “spirito della tradizione”.
L’interesse suscitato non tanto nei turisti, quanto nei Bretoni
stessi da tale genere di spettacoli e feste, testimonia il successo
del desiderio di stare insieme, la lotta contro la standardizzazione,
la ricerca delle proprie radici per mettere in luce la propria
identità etnica.
Vi sono infatti persone disposte a percorrere centinaia di km pur di
partecipare a queste manifestazioni e questo perché l’interesse va
aldilà del puro divertimento.
Ciò che mi preme sottolineare, inoltre, è che questa organizzazione e
spettacolarizzazione della tradizione bretone non nasce
esclusivamente dall’esigenza di incrementare l’afflusso turistico, ma
al contrario ha motivazioni legate più all’ambito culturale che alla
speculazione economica. E questo offre buone possibilità alla
letteratura orale bretone di garantirsi un futuro.
Le erbe
magiche e la farmacopea tradizionale Bretone
Come la maggior parte
delle regioni d’Europa, la Bretagna ha ereditato dal proprio passato
una medicina tradizionale che si è perpetuata fino ai nostri giorni.
Tale medicina comprendere anche l’impiego delle erbe: questa pratica
fa parte di un insieme di relazioni che l’uomo tesse con ciò che lo
circonda e il particolare con regno vegetale.
Gli alberi, soprattutto giocano un ruolo simbolico fondamentale nella
mentalità collettiva. Si tratta di culti ed usanze che risalgono a
tempi molto lontani, addirittura al tempo preistorico.
I Celti manifestavano un rispetto religioso per certi alberi e
conoscevano le proprietà farmacologiche delle erbe medicinali. Anche
i Galli raccoglievano erbe a fini terapeutici.
Una delle erbe più apprezzate dai bretoni era la verbena che
permetteva di scacciare la febbre, guarire i morsi dei serpenti, in
breve, guarire tutti i mali e ottenere tutto ciò che si desiderava.
Ma affinché essa avesse questi poteri, occorreva raccoglierla in
condizioni particolari, cioè nel momento in cui si alzava nel
firmamento la costellazione del Cane, quando Luna e Sole sono assenti
nel cielo.
La cerimonia cominciava con l’offerta rituale di un favo alla terra,
come penitenza del furto che si andava a commettere e alla ferita che
si causava.
Poi bisognava tracciare un cerchio intorno alla pianta con un’arma di
ferro, sradicarla con la mano sinistra ed alzarla in aria.
Il sesto giorno di luna, un sacerdote vestito di bianco dava inizio
alla cerimonia del ringraziamento: i rami di verbena venivano
raccolti in un bianco telo e venivano sacrificati due tori
altrettanto bianchi in segno di riconoscenza.
Numerose altre erbe erano in uso presso gli antichi bretoni come
l’assenzio di Saintogne dalle indiscutibili proprietà vermifughe.
Le erbe erano anche l’ingrediente principale di pozioni magiche o
filtri d’amor e spesso, i racconti popolari bretoni portano il
ricordo dei loro poteri miracolosi.
In un racconto particolare “Le petit cochon noir”, il protagonista,
un finto medico, cura un malato “facendolo addormentare per
guarirlo”.
Si tratta senza dubbio di una reminescenza dell’utilizzo di
anestetici vegetali; infatti l’insensibilizzazione con agenti
farmacologici era conosciuta da molto tempo.
E’ noto, ad esempio, che per tale scopo veniva usata una ricetta in
cui erano mescolate mandragora ed erbe mora; anche la belladonna e
tutte le solanacee in genere facevano parte delle misture destinate a
provocare allucinazioni, il sonno o la morte.
Le regole di vita, i consigli dietetici e lo stesso uso delle erbe
medicinali erano una comunione tra l’uomo e la terra, l’essere e il
cosmo.
Le erbe medicinali ristabilivano un legame rotto o deteriorato,
un’armonia perduta.
La ricerca della guarigione non seguiva quindi vie scientifiche, ma
un cammino rituale che permetteva di stabilire relazioni tra gli
individui, tra l’uomo e ciò che lo circonda.
La parola bretone LOZOU esprime bene questa concezione
della medicina: tale termine indica tutte le sostanze, piante
medicinali o anche semplici erbe commestibili, che permettono
all’individuo di creare un equilibrio tra il mondo e se stesso.
Prova concreta di come questo modo d’intendere la medicina sia ancora
molto forte in Bretagna, è che l’uso della parola LOZOU, lontana
dall’essere confinata nella lingua bretone è passata largamente nel
francese.
Il LOUZAOUER era il guaritore o il medico, ma anche
l’erborista, o il botanico.
In senso lato comunque esso era un esperto della natura, capace di
ricondurre l’uomo in uno stato di benessere e armonia, facendogli
così ritrovare la salute perduta.
Egli conosceva tutto delle erbe: le proprietà, le regole per la loro
raccolta, la posologia. Nulla era casuale, tutto seguiva regole
precise.
Esistevano vari tipi di guaritori: i massaggiatori, che riuscivano
con un colpo di mano a ridurre una frattura, oppure maghe che
utilizzavano formule sacre e gesti rituali. Per guarire dalle
verruche per esempio, si consigliava di tracciare intorno alle
pustole un cerchio con il pollice annerito precedentemente dalla
fuliggine.
Per i brufoli invece bisognava procurarsi una medaglia d’argento
sulla quale veniva incisa una croce, applicarla sulla zona infiammata
e recitare molto velocemente e senza prendere fiato questa
filastrocca:
Ar
werbl en deux nao verc’h
Eus a nau e teu da eiz
Eus a eiz e teu da seiz
Eus a seiz e teu da c’hwec’h
Eus a c’hwech e teu a bemp
Eus a bemo e teu da bevar
Eus a bevar e teu da deir
Eus a deir e teu da ziw
Eus a ziw e teu da unam
Eus a unam e teu da dra
(Trad: Il foruncolo ha
nove figli, Da nove diventan otto, da otto sette, da sette sei , da
sei cinque, da cinque quattro, da quattro tre, da tre due, da due uno
e da uno zero).
Pensare che queste
procedure siano ormai smarrite, sarebbe un errore: niente è più vivo
oggi dell’arte del guaritore, la quale trionfa soprattutto là dove la
medicina si rivela impotente.
Chi soffre di eczemi ad esempio, o di reumatismi, si affida spesso
alle guaritrici; basti pensare che soltanto nei dintorni di Quimper
sono una quindicina ad esercitare questa arte tra scienza e magia.
La medicina in Bretagna non è separata dalla religione e ,
conseguentemente, la terapia non è indipendente dal rito.
Le erbe, in quanto medicinali, sono sacre e ciascuna di essere
rappresenta un’occasione privilegiata di comunione universale.
Una pianta in particolare merita attenzione: si tratta dell’Erba
d’Oro.
Essa non è mai stata identificata e forse appartiene solamente al
mito. Deve il suo nome al fatto che di notte essa brilla come un
piccolo sole; cresce solitamente nei prati e nulla, durante il
giorno, permette di riconoscerla.
Ha la curiosa proprietà di risalire i fiumi controcorrente e quando
si riesce a possederla, dopo averla raccolta secondo regole precise,
essa permette di trovare tesori nascosti.
Camminare anche per caso sull’Erba d’Oro, dona il potere di capire il
linguaggio degli uccelli e quindi la capacità di comunicare con loro.
Escludendo quest’erba del tutto particolare, la farmacopea bretone,
pervenuta fino ai nostri giorni, comprende una trentina di piante di
cui si ebbe menzione, per la prima volta, nel dizionario di Père
Gregoire, edito a Rennes nel 1732.
Esse prevenivano in forma diretta dalla tradizione ancora vivente a
quell’epoca.
I parassiti erano numerosi in passato e liberarsi dalle infestazioni
costituiva un problema costante.
Contro i pidocchi era consigliata la fusaggine chiamata
appunto dai Bretoni LOUZAOUEN AL LAOU, erba dei pidocchi; un
tipo di menta che cresce in zone umide era utilizzato contro le
pulci, ma serviva anche contro la tosse, grazie al suo potere
antispasmodico.
Contro la tigna il rimedio era la bardana che oggi sappiamo
avere un principio antibiotico.
Essa veniva chiamata curiosamente “erba del grembo”: si
pensa che questo nome sia derivato da una confusione tra il francese
bardane e il bretone barlen che significa appunto
grembo, ventre.
Le ferite di ogni tipo costituivano un capitolo importante nella
patologia. Nel dizionario di Père Gragoire è segnalata l’esistenza di
un’erba emostatica chiamata LOUZAOUEN AN DIWAD o erba
dell’emorragia, il cui succo, aspirato dal naso, arrestava il sangue.
Il girasole invece era specifico per la distruzione delle
verruche, mentre la viola selvatica era efficacissima contro
l’eczema.
La celidonia, chiamata in Bretone AR SKLER, la chiara, era
molto usata per curare infezioni oculari.
Ottimo stimolante per l’organismo era l’infuso di Achillea
millefoglie, chiamata non si sa il perché louzaouen ar c’halvez,
erba del carpentiere, eccellente digestivo e tonico.
Per il cuore c’era la melissa, le cui proprietà calmanti sono
note ancora oggi.
Bisogna ricordare ancora una volta l’importanza che avevano per
l’efficacia delle piante medicinali, le modalità di raccolta: le erbe
potevano essere raccolte soltanto di notte, alcune sradicate con la
sola mano sinistra e senza l’uso di utensili in metallo, altre
prelevate recitando una filastrocca o una formula magica.
Le virtù intrinseche del vegetale non si sarebbero conservate se non
si rispettavano le regole.
Occorreva il massimo rispetto per la terra che offriva i medicamenti
all’uomo, altrimenti si sarebbe spezzato il legame armonico tra
esseri umani e natura.
L’erba d’oro poi esigeva un rito particolare: per raccoglierla
bisognava essere in camicia e a piedi nudi. Quando la si vedeva,
occorreva tracciare attorno ad essa un cerchio, poi sradicarla
facendo attenzione a non spezzarla. Quale significato aveva questo
rito?
Officiare a piedi nudi rivela un comportamento sacro molto antico,
che vuole indicare una profonda comunione con la terra; la camicia
invece sostituiva l’antico abito cerimoniale, solitamente molto ampio
e bianco.
Anche il cerchio disegnato intorno alla pianta è un simbolo arcaico
conservato nella magia sino ai nostri giorni, in quale rende sacro
ciò che contiene.
Infine, il divieto di tagliare la pianta, serve a mantenere intatte
le proprietà magiche del vegetale, senza disperderle attraverso
ferite.
Se il rito non viene eseguito secondo le regole o l’erba d’oro viene
tagliata inavvertitamente, l’armonia degli elementi si rompe, il
cielo si oscura, comincia a piovere e si può essere vittima di un
malore.
A questo culto delle erbe se ne aggiunge un altro di eguale
importanza: il culto degli alberi.
Se si fa opera di ricerca all’interno della tradizione bretone, si
possono trovare innumerevoli testimonianze di tale culto.
Il concilio di Nantes nel 658 si pronunciò molto duramente nei
confronti dei culti arborei, tanto che nel canone XX troviamo
scritto:
“I vescovi e i loro ministri devono lottare con grande impegno
affinché gli alberi consacrati al demonio che il popolo venera così
fortemente da non osare tagliarne neppure un ramo, siano distrutti
fino alla radice e bruciati. (…)”
Ovviamente, in seguito a
tali predisposizioni, molti degli alberi sacri scomparirono, e con
essi i riti in loro onore; forse è proprio questa la ragione per cui
l’importanza religiosa degli alberi è apparsa ai folkloristi molto
minore di quella delle pietre o delle acque (fontane magiche).
Comunque tuttora si trovano alberi che sostituirono altri più antichi
morti di vecchiaia o abbattuti dal Cristianesimo: si tratta
prevalentemente di vecchie querce nel cui tronco è stata posta la
statuetta della Vergine, per giustificare il culto che l’albero
riceve.
A testimoniare quanto il culto arboreo è ancora presente nella
tradizione Bretone è l’usanza di piantare un albero nei primi giorni
di maggio, periodo in cui si svolge la festa di Bel, il sole di
primavera.
In certi luoghi, all’epoca della Rivoluzione Francese, questo costume
si conformò alle nuove idee e l’albero di maggio divenne così
l’Albero della Libertà; è sotto questo nome che il rito esiste ancora
oggi nei villaggi di Pouldavid e Douarnenez, dove si ripete tutto gli
anni.
Poco lontano, a Locronan, si perpetua un rituale di epoca preistorica
e di ispirazione pagana: in una notte del mese di maggio (i profani
non sanno bene quale), gli officianti si recano nella campagna per
abbattere un faggio, giovane ma già robusto e lo portano sulla piazza
del borgo. Lo sistemano in piedi vicino ad un vecchio pozzo e qui
resterà fino al solstizio d’estate, quando verrà tagliato a pezzi e
bruciato.
L’albero , come altri vegetali, è ritenuto la dimora di un’anima
disincarnata. Essi sono presenti sotto questa veste in moltissimi
racconti e leggende: si tratta solitamente di una coppia, marito e
moglie, che devono portare a termine sotto questa forma una parte
della loro vita nell’aldilà.
Nei “Voyages vers le soleil” di Luzel, il viaggiatore protagonista
incontra una coppa di alberi che si picchia con una tale furia da far
volare lontano pezzetti di corteccia e di legno.
Si trattava di due sposi che avevano litigato continuamente durante
la loro vita e che il dio sole aveva condannato alla medesima pena
nell’aldilà.
Il viaggiatore, preso da pietà, interpone un bastone tra i due
alberi-sposi, mettendo così fine ad una punizione che durava da
trecento anni.
Questo tipo di racconti testimonia la concezione di un mondo popolato
di anime che obbliga ad un grande rispetto per la natura; infatti per
non ferire o uccidere l’anima di un essere umano, magari un parente o
qualcuno di caro, si evita di danneggiare qualsiasi albero o pianta.
L’albero e l’uomo presentano numerose analogie. Entrambi sono eretti
e suddivisi in tre parti ben distinte: quella superiore, con testa e
braccia (cima e rami), quella mediana, con il tronco e quella
inferiore con le gambe (radici).
L’albero viene visto come un antenato, poiché vive più dell’uomo e
conseguentemente conosce più cose. Chi comprende il linguaggio degli
alberi può avere notizie sugli eventi del passato e conoscere la
saggezza del mondo. La sua robustezza e nobiltà ne fanno un simbolo
di maestosità.
La maggior parte degli alberi venerati, dal Medioevo fino ai giorni
nostri, erano querce, forse perché alberi alquanto longevi e quindi
duraturi nel tempo.
Esistono ancora persone che parlano, senza sapere spiegare il senso,
dell’ eskop derw , il vescovo della quercia, un personaggio
tra il prete e il filosofo, probabilmente maggiore esponente del
culto dell’albero.
Questo sentimento di rispetto nei confronti degli alberi è ancora
molto vivo nella collettività bretone: è uso comune, ad esempio, in
momenti di stanchezza fisica o psichica, abbracciare un albero per
scaricare le influenze negative ed assorbire in cambio l’energia
positiva della pianta.
Albero simbolo di vita dunque, ma anche legame con il mondo non c’è,
con l’inconoscibile, passaggio magico fra vita terrena e l’aldilà.
Come il menhir anch’esso si protende verso il cielo, come un ponte
immaginario tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Ancora una volta il sentimento religioso sembra essere il trait
d’union tra passato e presente, vera testimonianza di una continuità
all’interno della tradizione bretone.
Il legame che i Bretoni sentono nei confronti dei morti è molto forte
e trova riscontro, oltre che in numerose feste ad essi dedicate,
anche in questa esigenza di ritrovare i defunti ovunque nel mondo
circostante.
Questo sentimento cmq, non può essere compreso a fondo senza prendere
in considerazione la concezione che i Bretoni hanno della morte e
osservare quale elaborazione, in ambito popolare e culturale, è stata
fatta di tale argomento.
La
morte
"Addio cappellini,
mazzolini, fiorellini.
Addio amanti e pulzelle.
Ricordatevi spesso di me e riguardatevi,
se siete saggi. Piccola pioggia abbatte gran vento."
Il più importante Dio
della Bretagna è la Morte.
Già i galli, secondo Cesare, si consideravano discendenti del Re
degli Inferi. Per i Bretoni lo stesso dio, che chiamano Ankou, domina
l’universo; tutto infatti è a lui sottomesso, persino il dio
cristiano, poiché Gesù ha dovuto subire la sua legge.
Scrisse Annibale Le Braz nel suo “La leggenda della morte”: tutta la
coscienza di questo popolo è orientata verso le cose della morte e
l’idea che ne hanno, malgrado l’impronta cristiana, non sembra molto
diversa da quella riscontrata presso i loro antenati pagani”.
Ma chi è Ankou? E qual è
il senso del suo nome?
Questo personaggio della mitologia Bretone, non è il dio del
mondo sotterraneo, non corrisponde al diavolo della tradizione
cristiana.
Ankou è l’Accompagnatore, colui che conduce le anime da un
mondo all’altro e il suo potere è assoluto.
Il suo nome non ha un’etimologia certa, ma evoca immediatamente
delle sonorità vicine: anken, il dispiacere e
ankounac’h, l’oblio.
Il suo aspetto varia: le rappresentazioni più antiche lo
mostrano sottoforma di scheletro che tiene in mano una freccia.
In altre opere più
recenti, come la statuetta di Ploumiliau, lo scheletro regge con una
mano una falce la cui lama è montata a rovescio.
A volte, nei racconti,
Ankou ha semplicemente l’aspetto di un uomo vestito da una cappa nera
e con il viso coperto da un grande cappuccio.
Solitamente è alto, magro ed ha la capacità di prendere sembianze
diverse. Ankou non agisce da solo: egli avanza su di un carro, la cui
caratteristica principale è quella di avere le ruote cigolanti,
cosicché tutti possono sentirlo arrivare. |
ANKOU |
(immagini
tratte da:
http://www.thanatos.it/cultura/tradizioni/ankou.htm
)
varie rappresentazioni di Ankou
Ankou è generalmente accompagnato da due accoliti; il primo toglie
gli ostacoli per permettere al carro di procedere senza intoppi, il
secondo carica i morti.
E’ lungo sentieri particolari che si può incontrare questo lugubre
equipaggio: si tratta solitamente di antiche vie abbandonate dal
traffico abituale e tagliate fuori dalla vita quotidiana.
Vengono chiamati in bretone henkou ar Maro, i sentieri
della Morte; è sconveniente e pericoloso chiuderli, perché si può
disturbare il passaggio di Ankou.
Nelle zone che costeggiano il litorale, il Maestro, come anche viene
chiamato, ama spostarsi per mare servendosi di una barca, la
bag-noz o battello della notte.
In barca o con il carro, chiunque lo incontri, ritorna a casa per
coricarsi e sparire da questo mondo pochi giorni dopo.
Vi sono comunque delle eccezioni, senza sapere a cosa esse sono dovute:
succede infatti che alcune persone, pur avendo visto Ankou, non
subiscano danni di alcun tipo.
Frequenti sono i racconti che hanno come protagonista un fabbro che
si attarda a lavorare oltre la mezzanotte. Gli compare davanti un
uomo sconosciuto, il quale lo invita ad affilare una falce montata in
modo curioso; come ringraziamento lo sconosciuto rivela la propria
identità e dice al povero fabbro di dare le sue ultime disposizioni.
Così Ankou è rimasto fino al XX° secolo il più “vivo” degli Dei.
Nella tradizione cristiana egli è considerato il servitore di dio, ma
nella maggior parte dei racconti Bretoni, Ankou si mostra
perfettamente autonomo.
Il terrore degli inferi nacque dall’operato degli emissari della
Chiesa, che lanciarono maledizioni contro le feste pagane, le danze e
la libera sessualità.
Ed ecco l’inferno comparire anche nei racconti popolari.
Probabilmente in origine questi racconti avevano una matrice
clericale ed erano destinati a rafforzare la potenza repressiva delle
fiamme eterne. Intento che non ebbe grande successo se pensiamo che
nei settantanove racconti pubblicati da Luzel sotto il titolo di “Racconti
della Bassa Bretagna”, dell’inferno si parla una sola volta.
Quanto all’idea di sofferenza post mortem, invece non era estranea
allo spirito celtico e il Purgatorio cristiano, contrariamente
all’inferno, è stato interamente adottato perché non era altro che un
nuovo nome per un’antica credenza.
I racconti e le leggende sono molto prolissi nelle descrizioni di
quello che si può chiamare “mondo intermedio”. Questo luogo
appartiene già in certo qual modo all’aldilà, ma i suoi abitanti sono
ancora legati al mondo dei vivi.
Tali defunti ancora partecipi dell’universo che hanno lasciato, si
chiamano Anaon : sono anime erranti che si
manifestano agli uomini per domandare loro aiuto o, al contrario, per
vendicarsi di un nemico.
I viventi hanno la possibilità di vederli soltanto se conoscono le
parole o i gesti per evocarli.
Certi Anaons prendono le sembianze di esseri viventi: animali,
piante, rocce, uomini. Spesso li si incontra sotto forma di alberi o
menhirs, come detto prima.
Gli Anaons sentono il freddo e la fame; per questo gli si preparano i
pasti nel corso di alcune feste particolari ad essi dedicate, oppure
gli si lasciano regolarmente avanzi sulla tavola.
Non è difficile individuare, in tali usanze, il perpetuarsi
dell’antico costume delle libagioni poste all’interno delle tombe.
Quanto al freddo che essi sentono, risale anch’esso all’antica
concezione che vedeva l’oltretomba come un luogo buio e gelido non
potendovi esistere il fuoco, elemento appartenente alla terra. Forse
questa visione dell’aldilà fu influenzata anche dal tipico clima
bretone, ventoso e piovoso per buona parte dell’anno.
Al mondo intermedio appartengono anche gli “Esseri della notte”:
ve ne sono di tutti i tipi, ma sovente incontrarli non è piacevole.
Alcuni si accontentano di scherzi senza conseguenze, come per esempio,
effettuare trasformazioni in rapida successione davanti agli occhi
esterrefatti del malcapitato essere imano. Altre volte invece, si
divertono a disarcionare un cavaliere o a gettare un passante nel
fiume che sta attraversando.
Fa parte degli esseri della notte anche l’hoper-noz
l’urlatore della notte; egli lancia il suo grido acuto
nell’oscurità ed è consigliabile non rispondere se si tiene alla
propria vita.
La prima risposta al suo grido lo fa avvicinare della metà della sua
distanza, la seconda risposta ancora della metà, e la terza volta
esso vi assale per strangolarvi o annegarvi.
Si dice che gli hoper-noz siano anime senza pace che invocano la
sepoltura e la loro forza raggiunge il massimo della potenza a
mezzanotte.
All’interno della Bretagna, nelle campagne, bisogna temere
soprattutto la MAOUEZ-NOZ ossia la donna della notte, più
conosciuta con il nome di KANNERZ-NOZ, la lavandaia notturna.
Solitamente ella tiene in mano un lenzuolo bagnato e domanda a chi ha
la sfortuna di incontrarla, di strizzarlo insieme a lei; se il
malcapitato accetta si troverà con le braccia spezzate.
L’unico modo per salvarsi è quello di seguire, nell’attorcigliare il
lenzuolo, lo stesso senso della donna.
Tutti gli Esseri della Notte comunque non hanno un ruolo morale, non sono
dei giustizieri.
Essi attaccano gli innocenti quanto i criminali che si avventurano
nel loro territorio. Esistono così dei veri e propri tabù che
conviene rispettare se non si vuole finire inavvertitamente nel
territorio riservato agli esseri defunti, attirando la loro vendetta.
Innanzitutto è sconsigliabile compiere qualsiasi attività lavorativa
oltre la mezzanotte, poiché le ore della notte fonda appartengono al
mondo dei morti; poi non è considerato prudente avventurarsi lungo
sentieri sconosciuti o abbandonati, oppure vicini a corsi d’acqua.
Esistono luoghi privilegiati per Anaons, siti che essi amano più di
altro: primi di tutti i luoghi dove essi sono vissuti, ma anche
luoghi particolari, come l’isolotto di Tévennec, dove si incontrano
gli annegati in mare.
Isolotto di Tévennec
Del resto in
Bretagna, quasi tutte le isole disabitate vengono considerate
patrimonio dell’Adilà.
E ciò si deve all’antica credenza che vedeva il passaggio all’altro
mondo come un viaggio per mare verso terre sconosciute.
Già Procopio raccontava come lungo il litorale della Gallia, giusto
davanti alla Gran Bretagna, abitasse un popolo di contadini e
pescatori che da tempi lontani erano specializzati nel passaggio dei
defunti verso l’altro mondo.
La tradizione del passaggio dei morti si è conservata nelle leggende
e nelle credenze popolari fino ai nostri giorni e testimonia come il
popolo Bretone abbia sempre rifiutato l’idea di una frattura
all’interno del ciclo vitale e naturale. La morte non separa dalla
natura; l’essere umano cambia l’aspetto, l’esteriorità, ma continua a
far parte del mondo dei vivi.
Credo che questa visione della vita dopo la morte sia un adattamento
effettuato dal popolo delle teorie filosofiche dei druidi celtici; la
convinzione popolare che mondo terreno e aldilà si compenetrino,
riconduce alla ricerca alchemica da essi effettuata, al loro
desiderio di individuare la legge primaria che unisce tutti i
fenomeni della natura, che crea armonia tra gli elementi.
Non si possono avere prove certe riguardo tale teoria, poiché come è
noto, i druidi trasmettevano il loro sapere esclusivamente per via
orale.
E’ quindi necessario basarsi esclusivamente sulle “sopravvivenze”,
ossia su ciò che è restato di culture precedenti nella cultura
popolare odierna.
Certo è che queste credenze si sono mantenute inalterate per
lunghissimo tempo, evitando quei contagi culturali che hanno invece
trasformato altri ambiti del folklore Bretone.
Gli Dei di
ieri e di oggi
La terra d’Armorica porte
in sé le tracce dei suoi antichi abitanti, il loro spirito e i loro
culti; si può affermare che gli Dei di un tempo vivano ancora oggi.
Noi li incontriamo sotto mille forme e molto spesso a nostra
insaputa: la loro venerazione, divenuta inconscia, può essere
riconosciuta ovunque qui in Bretagna.
BELENOS |
Il Dio della Luce, colui
che dona il chiarore del giorno, il Sole, dispensatore di vita,
era conosciuto come Belos o Belenos, il Luminoso.
Iscrizioni a lui dedicate sono state trovate anche in Italia a
Venezia, Rimini e in tutta la zona che i romani chiamavano la
Gallia Cisalpina.
Il poeta Ausonio (310-395) parla, nella sua opera “Ordo urbium
nobilium”, di due templi di Belenos, uno a Bordeaux, l’altro a
Bayeux e in entrambi i casi nota che il loro cappellano
appartiene ad una famiglia di druidi. Tutt’ ora molti villaggi
portano un nome legato al tanto venerato Belenos; è il caso di
Bearne, cittadina della Borgogna il cui antico nome era “Beleno
Castro” o di Belena nell’Alta Lorena, per non parlare degli
innumerevoli luoghi sparsi in tutta la Francia che si chiamano
Bel-Air. |
Solitamente di tratta di
luoghi situati in posizioni elevate in modo da dominare borghi o
villaggi e ciò fa pensare che essi fossero dedicati al culto di
Belenos.
In certe regioni, nell’ovest e nel centro della Francia, un comune su
tre possiede un sito che porta il nome di Bel-Air. E’ da notare anche
il fatto che questi luoghi chiamati Bel-Air non si trovano mai
all’intero delle antiche mura delle città, ma sempre in prossimità
delle porte.
Nella Langue d’oc, il nome si incontra più raramente, ma troviamo
anche qui dei Belloch, equivalente del francese Beaulieu
riconducibile sempre a Bel.
BELISAMA |
Dedicato a Belenos
era anche il mese di maggio, periodo in cui cadeva il Solstizio
d’Estate e di conseguenza la festa religiosa più importante sin
dai tempi della preistoria; si festeggiava la rinascita della
natura e il ritorno del sole alto nel cielo. Tutt’ora in
Bretagna sono numerosissime le feste popolari che si svolgono
in questo mese.
Accanto a Belenos, re del firmamento, veniva adorata
Belisama, la Regina del Cielo. Una città francese le deve
ancora il proprio nome: è Bellème, la cui chiesa, dedicata alla
Vergine Maria, ha sostituito senza dubbio il tempio dedicato
alla Dea. E’ lecito pensare, inoltre, che anche molte altre
chiese che portano il nome di Notre Dame fossero un tempo
luoghi di culto in onore di Belisama.
Nella mitologia Bretone, un’altra donna soprannaturale contende
il primo posto alla Regina del Cielo: è la Dea delle Acque e
dell’Amore, solitamente rappresentata sotto forma di sirena, a
volte con la coda di pesce, altre con quella di serpente.
La tradizione Bretone distingue due personaggi dello stesso
tipo: uno è Dhaud regina delle acque e del mare, spesso
identificata anche con Morgana, la sorella di Re Artù, il cui
nome significa appunto “nata dal mare”. |
L’altra invece è la
principessa Ahès, regina delle acque dolci: la fata Viviana
che alleva il giovane Lancillotto nel suo palazzo immerso nel lago di
Comper è un altro volto della stessa Signora.
Entrambe comunque rappresentano l’amore, la bellezza femminile,
l’attrazione fra i sessi.
Il Cristianesimo ha rivolto verso di esse maledizioni su maledizioni,
proprio per la profonda sensualità che esse esprimono, ma le loro
figure continuano ad ornare fontane sacre e chiese.
Madonna di Brennilis |
Una delle più belle
rappresentazioni di Sirena che testimonia la scarsa
riuscita dei processi di cristianizzazione in Bretagna, si
trova nella chiesa di Brennilis: essa è situata sopra ad un
altare detto “delle Sibille”, in quanto l’ immagine di queste
divinità compare nella decorazione lignea. Si vede prima di
tutto una statua della Vergine che tiene in braccio il Bambino;
ai suoi piedi, ma non schiacciata come il serpente della Genesi
nell’iconografia cristiana, si protende un’affascinante
sirenetta a seno nudo, sorridente e del tutto impudica.
La sua coda circonda la veste della Madonna e scompare dietro
ad essa. La statua è addossata al muro e pertanto non si può
vederne il retro, ma è proprio lì che è nascosta la sorpresa.
Quando infatti la statua viene portata in processione il 15 di
agosto, si può notare che i capelli della Vergine, raccolti in
una lunga treccia che scende lungo la schiena, va ad unirsi
alla coda della sirena. Treccia e appendice caudale si
confondono senza che si possa fare più alcuna distinzione fra
l’una e l’altra, a testimoniare l’identità delle due figure. |
Altro personaggio molto
venerato in Armonica è Aieule, giovane donna dal fascino
splendente. Sant’Anna, nonna di Gesù e madre della Vergine ha preso
il suo ruolo in seguito alla cristianizzazione.
Non esiste chiesa in Bretagna che non possegga una statua o un
dipinto a lei dedicato; solitamente viene rappresentata con un libro
in mano ad indicare che essa è la detentrice del Sapere della
Conoscenza.
Secondo la tradizione S.Anna era Bretone ed ella non passò che un
breve periodo della sua vita in Giudea, dove si sposò e diede alla
luce Maria. Ella ritornò poi in Armonica ed qui che suo nipote Gesù
le rese visita prima di essere crocifisso. Ecco come è stata
ricollegata la lezione cristiana con il passato e gli Dei.
Per una “curiosa coincidenza” poi, anche il nome Anna in ebraico
significa, oltre che “grazia” anche “palude”, e infatti le due chiese
più importanti dedicate alla santa si trovano esattamente vicino a
paludi.
La palude era considerata dai Bretoni uno dei passaggi per
l’oltretomba e dunque luogo dove si svolgeva l’attività di Aieule,
l’anziana, la Madre, colei che conosce il passato.
Figura molto significativa nella storia religiosa non solo della
Bretagna ma di tutto l’Occidente, è quella del Gigante, chiamato
abitualmente con un nome donatogli da Rabelais: Gargantua.
DOLMEN di Brennilis |
MENHIR di Berrien |
Questo personaggio sembra
essere stato uno degli Dei più importanti; il suo dominio superava
l’area di estensione dei Celti forse la sua origine risale al
periodo pre-celtico, cioè a quello megalitico.
Esso infatti è sempre legato ai menhirs o ai dolmens, che la
tradizione popolare considera suoi giocattoli.
Nelle cronache del XII sec, Giraud de Cambrie lo identifica come
figlio di Belenos, ma non si hanno notizie antecedenti sull’origine
di questo Dio.
Il celebre Mont Saint Michel nel XIII sec portava ancora il nome di
Mont Gargan e la roccia vicina si chiama ancora oggi
Tombelaine, ossia tumba Beleni, la tomba di Belenos.
Gargantua è molto conosciuto nella Bassa Bretagna.
A Brasparts e a Quimerc’h si dice che egli sia alto due volte la
roccia di Pleyben e i megaliti che si trovano tra Elon e Huelgoat
devono a lui la propria origine; a Laz invece, si considera la Punta
di Raz come sua dimora. Esiste anche un dolmen in rovina, nei pressi
della cappella di Saint Herbot, che porta il nome di Be Gewr, la
Tomba del Gigante.
Nella Bretagna orientale si trova poi il luogo della sua nascita: il
Capo Frèchel, che è situato nella regione un tempo denominata
Belerion, ad indicare la terra votata a Belenos.
Come si può notare, spesso i nomi di Gargantua e Belenos si trovano
appaiati ed è stato questo probabilmente l’elemento che ha fatto
pensare i cronisti del XII° secolo ad una parentela fra i due.
La presenza del gigante, così consistente in tutta la Bretagna, è
riconoscibile anche in molta parte della Francia e persino in Italia:
basti pensare al Monte Gargano in Puglia.
Grande mangiatore e bevitore, capace di incredibili prodezze aiutato
dalla sua grande corporatura, Gargantua era un gigante buono; in
tutte le tradizioni egli appare sempre benvoluto, simpatico e le
cristianizzazione non è mai riuscita a intaccare questa reputazione
di Dio bonario e allegro.
Egli si manifesta spesso sotto le spoglie di un pellegrino, tanto che
a volte la sua leggende viene confusa con quella dell’Ebreo errante.
Ma se il padre del gigante era il sole, chi era la madre? In alcune
leggende, alquanto rare, si dice che egli fosse figlio di Anna, ma
anche a questo proposito non esiste una genealogia certa.
Ciò che sembra probabile comunque, è che appartenesse ad una trinità.
Il culto della triplicità regnava nella società Celtica;
l’iconografia gallica in particolare, ci ha consegnato numerosi
personaggi divini, maschili e femminili, rappresentati in gruppi di
tre.
La venerazione della Trinità è d’altra parte molto diffusa in
Bretagna e un buon numero di villaggi porta il suo nome. Si tratta
sempre di luoghi sacri per le società pagane che, con l’arrivo dei
Cristiani furono convertiti alla nuova religione.
Nel XII° sec Guillaume de Malmesbury scrisse nella sua opera
“Antiquités de l’Eglise de Glastombury”: “Un angelo apparve in sogno
all’ apostolo recatosi in Bretagna e gli disse queste parole: ovunque
tu troverai una femmina di cinghiale accucciata con i suoi piccoli,
costruirai una chiesa in onore della Santa Trinità”.
La femmina del cinghiale che allatta i suoi piccoli, simboleggia
l’insegnamento dell’Antica Religione ed è perciò probabile che il
nuovo culto introdotto al posto del precedente, non fosse stato
scelto a caso, ma che una trinità si fosse sostituita ad un’altra.
KERNUNNOS |
A fianco degli Dei solari
come Belenos ve n’è un altro, molto differente, che è giunto
fino ai nostri giorni. Si tratta di Kernunnos, di cui
esistono numerose rappresentazioni antiche; è il dio con le
corna in relazione con la Terra, il mondo sotterraneo e
l’Occidente.
L’Ovest porta ancora il nome bretone di Kornog e il
vento che proviene da questa direzione si chiama Kornaouegh.
Tale credenza risale ai Celti oppure è antecedente? In effetti
il culto delle corna e degli animali cornuti, nelle regioni
occidentali dell’Europa, sembra risalire a molto prima
dell’arrivo dei Celti.
Nelle sepolture di epoca mesolitica scoperte nell’isola di
Teviec, vicino a Quiberon sono stati riesumati scheletri sui
quali riposavano delle corna di cervo. |
Bisogna ricordare anche la
strana figura magdaleniana (11000 a.C.) incisa sulla volta della
grotta dei Tre Fratelli, nei Pirenei, che rappresenta un dio avente
la forma di un uomo con la testa ornata da corna ramificate.
Questo culto che risale dunque alla preistoria si è perpetuato fino
ai nostri giorni: ecco perché, nella chiesa di Trèhorenteuc, nel
Morbihan e non lontano dalla Valle senza Ritorno, vi è un affresco di
età moderna che rappresenta il Cristo sotto l’aspetto del Cervo
bianco di Brocèliande.
Le corna di cervo simboleggiano la vita, eterna sotto le fluttuazioni
cicliche di morte e risurrezione.
Le maschere del carnevale un tempo erano costituite da teste di
animali, in particolare di cervi e, in epoca merovingia, il sinodo
ecclesiastico della Gallia condannò l’usanza di “fare il cervo” (cervolus
facere) come un crimine, poiché si trattava di un costume pagano che
manteneva l’antico sentimento religioso, contrario al cristianesimo.
Un altro dio cornuto, dal muso di toro, viene spesso confuso con
l’essere dalle corna di cervo.
Anche la sua esistenza risale all’epoca preistorica: nella tradizione
popolare il bue e lui sono sovente legati ai megaliti o a luoghi un
tempo sacri.
Il patrono di Carnai, ritenuto il creatore degli allineamenti di
pietre e il protettore dei buoi, portava il nome evocatore di
Cornelio.
Le sue corna applicate ad una testa umana hanno simboleggiato per
secoli la potenza, la forza fisica e psichica, tanto che persino il
Mosè di Michelangelo, nella Chiesa del Gesù a Roma, porta due corna
sul capo, a testimoniare il potere spirituale.
EPONA |
Le divinità a forma di
animale erano decisamente frequenti: molto amata era una Dea
dei cavalli, Epona, che proteggeva l’allevamento e la
doma di questi animali.
I Bretoni furono da sempre ottimi cavalieri, tanto che nel IV°
secolo vinsero Carlo il Calvo proprio grazie alla loro
efficientissima cavalleria.
Il Dio cavallo dei Bretoni (poiché esiste anche una versione
maschile di Epona), lo troviamo anche nella leggenda di
Tristano e Isotta; è re Marc, che i bardi hanno cantato
come il marito della “regina dai biondi capelli”.
La toponimia e la tradizione hanno conservato il ricordo di
questo personaggio: molti paesi portano nomi come Penmarch’h,
in Bretone Testa del Cavallo, oppure Lostmarc’h, Coda del
Cavallo e su un fianco del Menez-Hom, il monte sacro di
Bretagna, si dice esista ancora la sua tomba. |
Dopo l’epoca cristiana, il
cavallo dei Bretoni ebbe un compagno: si tratta di Saint Telo,
chiamato anche il Maniscalco, poiché nell’iconografia tradizionale
egli viene rappresentato nell’atto di ferrare una zampa all’animale.
Si è pensato che anticamente il suo nome fosse Elo o Helo, il che
indicherebbe uno stretto rapporto con il termine Heol, sole.
Anche la scelta di questo santo da sostituire praticamente al Cavallo
è da ricercare nella tradizione celtica: il Maniscalco rappresenta
l’alchimia, poiché ha la capacità di trasformare il metallo, la
materia primaria. Egli è dunque il grande maestro delle metamorfosi,
il dio che aveva trasmesso parte del suo sapere ai drudi.
Attraverso i santi bretoni dunque, il politeismo è riuscito a
sopravvivere; l’Armorica, passata alla religione del cristo ha
continuato a venerare molti degli esseri sacri del proprio luogo.
Alcuni di essi erano certamente dei pagani cristianizzati, altri
appartenevano alla classe dei principi bretoni d’oltre manica che,
come capi religiosi o civili, avevano guidato le emigrazioni verso il
continente.
Si contano in totale circa 900 di questi Dei-eroi, tra le figure
importanti e meno note. Alcuni hanno fama universale, altri non sono
conosciuti che ne raggio di pochi chilometri e le notizie sulla loro
vita sono alquanto scarse. S.Telo, ha avuto lo scopo si perpetuare il
culto degli Animali Sacri, S.Hubert prese sotto la sua protezione il
mitico Cervo, S.Nicodème viene sempre associato ai buoi, come anche
S. Edern, Cornelio, Uzec, Melar, Goulven, Iuna etc..
Ventitrè santi diversi, nel pantheon Bretone, sono protettori degli
animali. Ciò testimonia l’esigenza profonda di un popolo di
allevatori di ingraziarsi il potere sovrannaturale per la difesa del
bestiame, ma anche meno prosaicamente, il riconoscimento tipicamente
pagano e politeista di forze che agiscono nella natura e che possono
essere rappresentate dai diversi animali. Gli animali con le corna
furono sicuramente privilegiati in quanto simbolo di potenza.
Altri santi hanno avuto il merito di conservare le tradizioni
dell’antica religione: sono i Sette Santi, chiamati i
fondatori di Bretagna. Saint Melaine, primo vescovo di Rennes e Saint
Clair, creatore del seggio episcopale di Nantes, fanno parte dei
Sette. Gli altri sono: Samson de Dol, Tudwal de Treguier, Pol de Leon,
Corentin de Quimper, Pater de Vannes.
Capita comunque di trovare delle variazioni e tra i Sette Santi
spesso sono inseriti anche Malo d’Aleth e Saint Bieuc che ha donato
il suo nome alla città omonima. Oppure accade come Vieux-Marchè, dove
i Fondatori sono stati sostituiti dai Sette Dormienti d’Efeso,
tardiva orientalizzazione del culto.
Appare chiaro che il culto dei Sette Santi, a volte considerati
fratelli, risale ad un prototipo pagano che fu in seguito
cristianizzato sotto forme differenti ma sempre in modo da
conservarne il simbolo numerico, elemento essenziale di questa
venerazione.
E’ in definitiva la cifra sette ad essere adorata poiché, secondo la
tradizione, essa possiede potere taumaturgico.
In generale poi il potere di guarigione viene riconosciuto
frequentemente alle divinità locali nascoste sotto le
rappresentazioni dei santi cristiani.
Alcune divinità sono considerate molto potenti e quindi invocate per
tutte le malattie, altre invece per ottenere buoni raccolti, per
lottare contro la siccità o la pioggia eccessiva così tipica in
Bretagna.
Tra questa folla di santi riaffiorano i grandi miti della tradizione
popolare bretone e con loro la traccia di una evoluzione, di una
trasformazione dell’animo umano nel tentativo di giungere ad una
elevazione verso mondi superiori.
Credo che nella religione popolare armoricana, pur modificatasi nel
corso dei secoli, si respiri ancora questa concezione di profonda
unità tra mondo sensibile e mondo sovrannaturale, come se la lezione
degli antichi non fosse mai andata perduta.
Questa filosofia dell’essere e l’antico insegnamento religioso si
trova anche nei racconti e nelle leggende iniziatiche Bretoni, così
chiamate per mettere in evidenza il loro carattere d’introduzione ad
un livello superiore di esistenza.
Bibliografia
- Le Scouezec G. - 1986, Bretagne terre sacrée, Belta
- Markale J. - 1977, Contes populaires de toutes les Bretagnes,
Ouest-France
- Le Braz-1979 , La lègende de la morte, Lafitte.
- Daniela Fiorini,-1995 l'invenzione della tradizione in Bretagna
- Le Gallo - 1975, Le paysan bretin e le mythe, Annales de Bretagne
et des Pays de l'Ouest.
(presto on line i Racconti e le
Leggende Iniziatiche Bretoni )
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